Il male assoluto: non c’è spazio per gli equivoci nel pensiero che vogliamo esprimere, ma abbiamo intenzione di spiegare perché ci dissociamo da questo fenomeno sempre più in voga: l’attivismo performativo, tanto semplice da mettere in pratica quanto dannoso. Vale la pena togliere un po’ di spazio ai racconti di fantasia, per parlare di questa epidemia del nostro tempo.
L’importanza dell’attivismo digitale
Internet e i social network offrono opportunità di condividere le proprie idee con persone di tutto il mondo e arrivano anche a un bacino di utenza che l’attivismo tradizionale delle piazze, in genere, fatica a raggiungere: le persone con disabilità sensoriale o motoria per esempio, alle quali spesso e volentieri le grandi manifestazioni “dal vivo” sono di fatto precluse e ogni partecipante con disabilità deve arrangiarsi con le proprie forze per presenziare, spesso vincolato a mezzi pubblici che non rispettano sempre gli orari degli eventi; quante volte si sono visti accompagnatori per non vedenti, interpreti della lingua dei segni, pulmini o carrozzine, per gli scioperi o mobilitazioni di grande rilievo? Incluse le ricorrenze nazionali come la festa della liberazione, del lavoro e della repubblica?
Eppure chi più delle persone con disabilità, sul lavoro, viene tutt’ora discriminato? Chi più di loro ha vissuto l’emarginazione nell’epoca del regime se non addirittura è stato messo a morte? Ciononostante, nessun accorgimento viene ufficialmente preso per includere questo gruppo di persone tra i partecipanti attivi delle manifestazioni in oggetto.
Speriamo di venir smentiti, ma ci risulta siano veramente pochi gli eventi inclusivi in questo senso. Negli ultimi anni abbiamo saputo di alcuni pride in cui avevano previsto un pulmino per persone con disabilità, ma basta.
Su Internet invece anche se sei cieco, sordo, o qualunque altra condizione di disabilità, non ha importanza: coi tuoi ausili informatici più o meno complessi, esprimi le tue idee come e quanto vuoi, con la teorica possibilità che il mondo si accorga finalmente della tua esistenza.
Questo è l’attivismo digitale di chi senza o con l’aiuto di altri, mostra e spiega al mondo la propria condizione facendo conoscere al pubblico come ci si convive. Quindi video e foto, podcast e blog, per condividere ciò che i media generalisti spesso non divulgano.
Non fosse che il privilegio è solo teorico perché quando si è nei social bisogna fare i conti con l’algoritmo degli stessi: meno gente ti segue, meno sei visibile.
Avere tanti seguaci non è facile, spesso li ottieni se hai i contatti “giusti” esperti di marketing digitale e, neanche a dirlo, se paghi. O nel migliore dei casi se qualcuno di già influente parla di te.
In più, non sempre i siti e app su cui girano le reti sociali rispettano le linee guida per l’accessibilità del web, per non parlare dei contenuti pubblicati dalle persone. Paradossalmente anche le più seguite pagine di attivismo contro le discriminazioni, spesso e volentieri penalizzano i lettori con disabilità visiva e uditiva perché non descrivono foto e video, né mettono sottotitoli per il materiale audio. Quindi? Dove si vuole andare?
Fra gli altri, parliamo di quelle community autoproclamate “inclusive” perché usano il carattere “schwa” ə inconsapevoli che quest’ultimo non è codificato in Braille né viene pronunciato correttamente dalle sintesi vocali; o peggio, usano gli asterischi e chiocciole ancora più cacofonici. Includere alcuni ed escludere altri, ma loro sono inclusivi! L’abbiamo toccata piano stavolta, pazienza!
L’illusione del “successo a portata di mano” viene ugualmente smontata se gestisci un sito web sul quale lavori sodo per avere la grafica e i contenuti migliori possibili, investendo anche tempo e soldi per rendere il tuo spazio compatibile coi motori di ricerca. Anche lì, devi star dietro alle variazioni nell’algoritmo che ti possono far slittare dal primo all’ultimo posto in pochi minuti, rendendoti di fatto invisibile.
E allora a questo punto l’idea dell’attivismo digitale si ridimensiona: se non sei un privato o azienda che ha già la sua visibilità e un conto in banca bello alto non vale decisamente la pena pensare in grande, meglio accontentarsi di mantenere la propria nicchia “pochi ma buoni” contando nel vecchio metodo del Passa Parola facendosi conoscere piano piano senza voler essere “influencer” a ogni costo. Questo se si vuole rimanere onesti. E se invece si hanno meno scrupoli? C’è sempre l’attivismo performativo!
Attivismo performativo: di cosa si tratta?
C’è un confine molto sottile fra attivismo digitale e performativo, occorre quindi un’alta dose di consapevolezza onde evitare di passare dal primo al secondo senza accorgercene.
- Attivismo digitale: portare avanti un ideale che ci sta a cuore usando le nuove tecnologie. Fornire informazioni, contribuire a eventi (raccolte fondi comprese), sfruttare la rete per coinvolgere più gente che si incontri in presenza, concentrando ogni sforzo sulla causa in questione (concetto ovvio? No, non lo è). L’attivismo digitale porta a risultati concreti.
- Attivismo performativo: sfruttare una causa sociale più o meno sentita, per acquisire visibilità come azienda o persona. Non importa il modo, il mezzo, né la veridicità di quanto si pubblica. La concentrazione dei propri sforzi è su se stessi anziché sulla causa in oggetto e i risultati concreti ci sono, ma solo a beneficio proprio o del proprio brand.
In realtà, non è un concetto nuovo; esistono forme di attivismo performativo risalenti all’era pre-social e in grado di causare danni enormi comunque.
Attivismo performativo e-mail: catene di sant’Antonio
Siamo alla preistoria della comunicazione web, quando gli unici mezzi di condivisione erano newsgroup e posta elettronica.
Un caso esemplare è quello di George Arlington e sua figlia Rachel, ha origine nel 2000 e la mail in oggetto ha girato fino al 2010; ne riportiamo il testo completo dal Blog di Paolo Attivissimo, Il Disinformatico:
Oggetto: Leucemia – Per favore leggete di seguito
Se la cestinerete davvero non avete cuore.
Salve, sono un padre di 29 anni. Io e mia moglie abbiamo avuto una vita meravigliosa. Dio ci ha voluto benedire con una bellissima bambina. Il nome di nostra figlia è Rachele. E ha 10 anni.
Poco tempo fa i dottori hanno rilevato un cancro al cervello e nel suo piccolo corpo. C’è una sola via per salvarla è operare. Purtroppo, noi non abbiamo denaro sufficiente per far fronte al costo. AOL e ZDNET hanno acconsentito per aiutarci.
L’unico modo con il quale loro possono aiutarci è questo: Io invio questa email a voi e voi inviatela ad altre persone. AOL rileverà la traccia di questa e-mail e calcolerà quante persone la riceveranno.
Ogni persona che aprirà questa e-mail e la invierà ad altre 3 persone ci donerà 32 centesimi .
Per favore aiutateci
Forse neanche è esatto chiamare “attivismo performativo” un messaggio come questo, ma è una sua forma primordiale: “senza preoccuparmi di quanto sia verosimile la donazione a terzi tramite l’invio di una semplice mail, la mando in giro. A me non costa niente e ho la coscienza a posto. Che male può fare?”
Peccato che George e sua figlia non esistano e pazienza se, a causa della firma in calce alla mail, il tuo posto di lavoro diventa inconsapevole garante di una notizia falsa: è successo alla Guardia di Finanza e all’Istituto Superiore di Sanità, dopo che alcuni loro dipendenti hanno (in buona fede) inoltrato l’appello con tanto di firma, numero di telefono e indirizzo arrecando danni al proprio luogo di lavoro, preso di mira improvvisamente da telefonate e messaggi su una bambina inesistente.
Fai sclerare mezzo mondo, finisci per perdere il posto, ma intanto hai la coscienza pulita per aver aiutato qualcuno. E grazie al cavolo! Questo tipo di mail fa sempre leva sul senso di colpa: “se la cestinerai sei senza cuore”, “sono certo che il 93% di voi la butterà via”, e avanti di questo passo.
Ci sono anche appelli veri, che hanno continuato a girare dopo la morte del protagonista; degno di nota è il caso Lucia Brandani, la cui storia risale a più di vent’anni fa.
Alla bambina hanno diagnosticato una forma rara di tumore nel 1999, il papà a inizio 2000 ha diffuso via e-mail una richiesta d’aiuto per cercare medici che potessero curarla. Purtroppo in aprile dello stesso anno Lucia se n’è andata, ma l’appello nel tempo ha continuato a girare via e-mail con le date modificate per renderlo attuale: 2001, 2005, 2007.
Caso di attivismo performativo da imbecilli senza scrupoli, diciamolo pure. Quale motivazione ci può essere per cambiare le date a un appello tragicamente scaduto, solo Zeus lo sa.
Per fortuna ormai Rachel e Lucia vengono ricordate solo come esempi di come NON usare la posta elettronica, ma con l’avvento dei social il fenomeno dell’attivismo performativo è peggiorato.
Condivisioni e copia-incolla salva mondo
“Sono sicuro che non mi condividerai perché sono disabile”, “se hai un cuore scrivi amen e condividi”, “copia e incolla questo messaggio sulla tua bacheca per solidarietà verso [condizione o malattia a caso].
Più tutti i vari messaggi da copiare e incollare per rifiutare le improbabili nuove regole di Facebook.
Spesso i post con gli amen o il “sono sicuro che non mi condividerai” hanno delle fotografie allegate, il più delle volte materiale preso da Internet senza il consenso degli interessati. Anche immagini di persone morte, sì.
Potremmo riportare milioni di esempi: la foto di Valentina sfruttata dai vari “no vax no tutto”, una coppia etero che ha votato “sì” al referendum sul matrimonio gay in Irlanda ma usata come modello di “famiglia tradizionale” dai promotori del “no”, foto di personaggi famosi (vivi o morti) scambiati per rapinatori, pensionati, migranti, al fine di stimolare l’indignazione. Riportiamo solo la storia di Ubuntu e Carlo perché è quella che ci ha fatto più ridere: attore Chris Tucker (a cui è attribuito il nome Ubuntu) e Charles Manson (serial killer americano di fine anni 60) a cui hanno attribuito il nome di Carlo, la fonte è una pagina satirica e qualcuno l’ha presa per vera.
Come il chitarrista Brian May diventato avvocato pro-migranti, anche questa ci ha fatto parecchio ridere e infatti ci abbiamo tirato fuori l’ispirazione per l’avvocato Bruno Maggio, che difende il Mondo Positivo nelle nostre storie di fantasia.
Animali e notizie false
Merita spazio anche l’attivismo performativo sugli animali: non è la prima volta che si trovano in giro video con l’orso amico del cane, storie improbabili di animali che reagiscono in un modo ritenuto “divertente” salvo poi trovare le pagine di veri scienziati o etologi a spiegare che no, quel cane non sta giocando anzi importuna l’orso e quest’ultimo non vede l’ora che il cane vada via.
Una versione “cartone animato” del rapporto con gli animali, domestici e selvatici, che finisce per danneggiare le creature così tanto amate le quali, non potendosi difendere, sono vittime inascoltate del narcisismo umano fino a che si arriva, in alcuni casi, a decisioni drastiche quando gli animali diventano troppo confidenti.
Gli esperimenti sociali
Il video del tizio che si mette un cartello con scritto “sono sieropositivo, abbracciatemi”; gli influencer che vanno per strada e filmano i passanti dopo aver fatto loro una domanda improbabile. Ma si può? Quanto sono buone, le loro intenzioni?
L’attivismo performativo funziona così: al centro dell’attenzione sei tu, la causa sociale di cui ti occupi è solo il contorno. Chi se ne importa se per ottenere un po’ di visibilità in più, hai violato le più elementari regole sulla riservatezza filmando gente senza il suo permesso.
Ogni piattaforma social è piena di chi si mette le bandierine arcobaleno o della pace, chi si fa il selfie con lo striscione, condivisioni di testi e video strappalacrime aumentati a dismisura dopo i confinamenti dell’emergenza covid. Ma quanto è vero ciò che pubblicano?
Tra i video di gente filmata senza avere il permesso uno in particolare ci ha colpito: quello della signora Maree, una donna australiana filmata da un ragazzo di 22 anni che le ha dato un mazzo di fiori. Lei non aveva idea di essere finita in un video con centinaia di visualizzazioni su Tiktok, e giustamente si è sentita “disumanizzata”. Trasformata in prodotto, da un influencer che in realtà vende se stesso guadagnando attraverso gli sponsor, e soprattutto facendo passare per commozione della signora, una reazione assolutamente infastidita.
Per quanto non ci fosse alcuna scena compromettente, non deve esser piacevole avere la propria faccia visibile al mondo intero quando magari sei una persona anziana che mai una volta ha messo piede nei social. In questo episodio si parla di “gentilezza” ma questo neanche sa dove sta di casa l’educazione!
Terapia d’urto
Se n’è già parlato troppo e non vogliamo dare ulteriore visibilità alla storia di Fedez e Sanremo; il rapper e influencer si è fatto baciare in bocca da uno dei cantanti in gara, Rosa Chemical, il quale ha spiegato il gesto parlando di “libertà sessuale”, “tentativo di non nascondere le relazioni ”poliamorose””, “un gesto di amicizia”. Sulla libertà sessuale noi siamo anche d’accordo con loro, ma, facendo attivismo così si attira l’attenzione su se stessi anziché sul messaggio da lasciare. Il contenitore, prima del contenuto.
Anche se comprendiamo il motivo per cui l’hanno fatto: una specie di “terapia d’urto”, uno stimolo a capire “la realtà del mondo è anche questo, che voi vogliate o no”. Il solito discorso di voler “dare una scossa” al mondo per tentare di cambiare uno “stato delle cose” che piace poco. Un concetto pacifico di “rivoluzione” che però non sempre porta ai risultati sperati.
E noi, siamo attivisti?
Non ci definiamo così, nella maniera più assoluta; potremmo elencare siti e gruppi che lottano contro lo stigma su HIV organizzando frequenti iniziative in presenza, vanno in giro per l’Italia e le piazze, noi ancora non ce lo siamo potuti permettere. Non insieme, almeno.
Ecco la ragione per cui non vogliamo esser chiamati “attivisti”, ci consideriamo solo due blogger amatoriali che provano ad affrontare un tema difficile in modo più leggero. Attirare l’attenzione? Mai! Pubblicare nostre foto allegate ai nostri post? Peggio ancora, noi forse siamo un contenitore vuoto ma va bene così.
Ammettiamolo senza mezzi termini: simulare noi un contatto sessuale e bacio con la lingua incorporato in diretta streaming, sarebbe facilissimo. Con tanto di scritta “positivo” e “negativo” sulle nostre schiene, membro senza preservativo in bella vista, con lo striscione “sono in terapia e non trasmetto l’HIV” ma servirebbe solo per attivare i morbosi e i moralisti. Vale la pena? Anche no. Lasciamo fare questi giochi a chi è già pieno di soldi fino alle orecchie e se perde un ingaggio ne trova subito un altro.
Non ci interessa farci vedere in giro per l’Internet pubblicando ogni singolo nostro respiro. Vogliamo che se uno legge i nostri post, lo faccia per il contenuto. I contenitori lasciateli pure perdere, grazie.
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