Scritto da Nadia Galliano, “Seguimi con gli occhi” racconta la storia di una ragazza adolescente che scopre un mondo più grande di lei e fa i conti con le proprie paure, che nemmeno sapeva di avere.
Se il mondo ti casca addosso
Mettiti nei panni della protagonista: hai 16 anni e il tuo mondo è fatto di social network nei quali trovi il piacere più o meno effimero di condividere ciò che ti piace; pubblichi selfie e registri video, ascolti la vita degli altri nelle loro conversazioni telefoniche, con l’illusione di trasportare il loro mondo nel tuo e al massimo ti confidi con tuo fratello maggiore Nicola, unico tuo vero punto di riferimento.
Finché il mondo reale ti piomba addosso un pezzo alla volta: prima un colpo di tosse, poi un altro, tuo fratello si ammala e gli arriva una diagnosi che inizialmente non significa nulla: “Polmonite di natura non specificata” e, all’aggravarsi delle sue condizioni, lo ricoverano in terapia intensiva. AIDS.
Ma tu cosa sai, dell’AIDS? La solita menata, forse, tramandata dai tuoi genitori: “se lo conosci lo eviti”, “riguarda solo certa gente”, “mio fratello è una persona seria”, finché è proprio lui a fartelo capire giocando sulla parola “affetto”: “è un sentimento che si è trasformato in diagnosi”. Eppure anche negli ultimi momenti della sua vita, anziché stringere la mano a Nicola e dirgli addio, tu che fai? Te ne vai. Scappi, per una paura che fatichi ad ammettere pure a te stessa.
Le cose purtroppo non vanno bene e il povero Nicola muore. Cerchi di nuovo di rifugiarti nel tuo mondo social, ma proprio in quel contesto vieni colpita alle spalle dai tuoi seguaci di cui pensavi di fidarti: “i fratelli delle persone per bene non muoiono di AIDS”, e altre frasi crudeli che ti fanno rendere conto di essere completamente sola. Cosa c’è da fare, a quel punto? Non lo sai, la sierofobia è una parola che nemmeno conosci eppure ti si è abbattuta addosso come se la morte di tuo fratello fosse colpa tua. Non c’è altro da fare, puoi soltanto iniziare un percorso in un mondo sconosciuto che ti ritrovi davanti. Anzi, sommerso. Perché scopri quanto casino ha creato il silenzio sull’HIV e la narrazione tossica sulle categorie a rischio. L’avessero saputo, si fossero protetti prima…
Seguimi con gli occhi: il gruppo di auto-aiuto
Ci siamo messi nei panni di Emma, ragazzina protagonista nel libro Seguimi con gli occhi, di Nadia Galliano per provare a capire le sue paure che, nel racconto, vengono condivise con uno psichiatra – il dottor Boris – il quale propone a Emma di frequentare un gruppo di auto-aiuto per persone con HIV in modo da conoscere meglio la realtà vissuta dal povero fratello Nicola e che le è piombata addosso come un palazzo crollato all’improvviso. Tutto parte da qui: “Affetto, un sentimento trasformato in diagnosi”.
Quel sentimento per il quale una ragazza dell’associazione si sente in colpa, fino a punirsi con gesti di autolesionismo; quello che per la prima volta Emma prova nei confronti di un volontario, Carlo, di cui a differenza degli altri personaggi non viene mai rivelato lo status sierologico perché in fin dei conti, per il loro amore reciproco, la condizione non conta.
Attraverso le voci e le testimonianze di quest’associazione fittizia in provincia di Torino, “heart to haart foundation” e il suo telefono amico, Emma capisce quanto fosse sbagliato l’immaginario che si era creata nei confronti di chi è positivo all’HIV; attraverso un’esperienza vissuta in una cena al buio organizzata da persone con disabilità visiva, l’associazione farà vivere ai propri membri Emma compresa, l’importanza del contatto fisico tra esseri umani – tema molto attuale fra l’altro, per via della questione COVID:
Se ci pensi, non può spaventarti un atto naturale. Capita spesso che la malattia sollevi polveri sottili di paura, da cui ripararsi con mascherine di distanza.
Questo risponde Carlo a Emma, quando lei gli chiede se il contatto con “le persone malate” lo spaventava.
Malati? Non ci siamo!
Il libro non ci ha lasciato molto e inizialmente abbiamo faticato a capirne il motivo: nessun personaggio più di tanto ci è rimasto impresso, salvo forse la ragazza che si puniva con la lametta ma soltanto una seconda rilettura ci ha reso consapevoli del problema: il linguaggio.
I fatti sono raccontati attraverso gli occhi di Emma, che deve fare i conti con una realtà diversa da quanto credeva: “i malati dove li tengono?” Si chiede lei, quando entra la prima volta in associazione. Salvo poi trovarsi davanti a persone che in un modo o nell’altro vivono una propria quotidianità senza avere alcun tipo di sintomo!
Anche lo psichiatra da cui va per superare il lutto e le paure, le fa capire quanto sia sbagliato dare per scontato che la fidanzata del fratello fosse consapevole di essere positiva, anzi nel corso della storia Emma ha anche occasione di conoscerla e perdonarla ma anche da parte dei personaggi che vivono con HIV, questo maledetto termine “malato” è ricorrente:
“Sono stata io a trasmettergli il virus. E giuro, non sapevo di essere ammalata. Non. Lo. Sapevo. Non sapevo di essere così. Perdonami, se potrai…”
Stiamo parlando di una ragazza senza alcun sintomo, che si può tranquillamente confondere in mezzo alle altre. Allora perché bisogna attribuirle l’aggettivo “ammalata”? “Non conoscevo le mie condizioni”, “non sapevo di avere l’HIV”, “non sapevo di esser stata contagiata”, ecco. Mille altri termini tecnicamente corretti, ma “ammalata” no. Perché pur avendo l’intenzione di mostrare che di fatto una persona può vivere con l’HIV senza esserne a conoscenza, non ammalarsi di AIDS e trasmetterlo in giro perché priva di terapie antivirali, dall’altra si conferma il luogo comune secondo cui, per forza, una persona con HIV debba sentirsi malata e sporca. Lo diciamo tranquillamente, Nadia è una nostra amica ma quando si scrive, bisogna essere consapevoli che il linguaggio può abbattere lo stigma.
Poi in ultima, non abbiamo capito l’epilogo: passa dal punto di vista di Emma a quello del fratello Nicola, in un mix tra passato e presente che non ci ha trasmesso gran che. L’anima di Nicola vede Emma nel presente e poi torna a quando gli hanno diagnosticato l’HIV? Non si capisce anche se l’abbiamo riletto insieme un sacco di volte. Ecco, sì, abbiamo apprezzato il tentativo di affrontare la tematica dell’HIV sommerso, forse in certi punti un po’ estremizzata ma a volte la realtà supera la fantasia come nel caso di Stefania, morta di sierofobia nel 2017 ma avremmo voluto un po’ meno confusione.
Lascia un commento