MONDO REALE: in una scena del famoso film “Bohemian Rhapsody” Freddie Mercury riceve la diagnosi di AIDS e, in ospedale, saluta un altro ragazzo malato che lo riconosce.
FANTASIA: il tradimento di Andrew è palese e Mark Wilson vuole lasciarlo, ma qualcosa lo trattiene.
Rivelazioni impossibili
“Un legame indissolubile, di sangue e anima”! Nella voce di Andrew avevo sentito una gioia che non riuscii a spiegare: cosa stava cercando di dirmi?
“Andy, guardami negli occhi! Dimmelo! Hai l’AIDS?” Parlai al bracciolo del divano e me ne vergognai immediatamente. Non poteva essere così felice di fronte a una malattia mortale, decisamente inopportuno affrontarlo in quel modo. Stavo sbagliando io, condizionato dai deliri di Ray.
“Il virus è la seconda anima”, diceva Raymond Still e parte di me forse ci credeva! Il bullo stava per diventare medico e io no.
Posai la testa sul bracciolo e piansi tutte le lacrime che avevo tenuto a freno davanti a Raymond prima, e a Freddie poi. “Andy”, dissi a bassa voce; “ho fallito. Un’altra volta. Aiutami.”
Sì, così era sicuramente meglio. Cos’avevo da perdere?
Presi coraggio e mi avvicinai al ripostiglio. Bussai. “Andrew, apri, ti prego… Parliamo!”
La porta si aprì lenta sul volto del mio partner che nemmeno mi guardava: “va bene”, sussurrò; “ti posso spiegare ogni cosa”.
Un ultimo sguardo a Freddie rimasto nascosto nello sgabuzzino, e Andy si sedette accanto a me sul divano. “Anch’io devo parlarti”, mi disse evitando i miei occhi; “ma raccontami di te, prima! Perché sei qui! Non ti aspettavo!”
Bastò schiarirmi la gola e dentro di me si risvegliò una fantasia: speravo, in cuor mio, che Freddie morisse folgorato dalla nostra lavatrice mentre Andy lo guardava senza poter aiutarlo. Sarei diventato forse come l’altro Mark, Mark David Chapman. L’assassino di John Lennon. “Da medico mancato a mitomane riuscito”, pensai. “Vendetta e celebrità in un colpo solo”.
“Andy”, mi alzai in piedi e lo chiamai sforzandomi di non piangere; “è successo… Ecco, non so come dirtelo. Si è compiuto il mio destino.”
In silenzio mi attirò a sé in un abbraccio potente, quasi disperato, a cui però non reagii: il corpo caldo del mio compagno mi disgustava e io non riuscivo a farglielo capire. Le braccia lungo i fianchi, lo sguardo nel vuoto, nemmeno ebbi la forza di divincolarmi da chi fino a un attimo prima stringeva qualcun altro. “Io sto qui per te”, mi rivolse un sorriso che faticai a decifrare. Quasi pareva che la mia sola presenza gli avesse tolto un enorme peso dalle spalle.
“Lo vedi Mark, siamo legati. Per sempre! Ora ne siamo certi!”
“Cosa, Andrew! Cosa?” Mi schiarii la gola di nuovo: “di cosa stai parlando!” Ricacciai una lacrima, non era il caso di farmi vedere debole. Non in quel momento, col mio rivale ancora nascosto nel ripostiglio di casa mia.
“Un attimo, Mark.” Mi colse di sorpresa afferrandomi la mano e stringendola forte. “Guardami quando ti parlo, voglio la verità. Non dirmi che è stato Raymond!”
“Ci ho provato, ma…”, balbettai; “io ho fatto il possibile ma Ray…”
“Quel bastardo!” Andy lasciò la mia mano e mi spinse via. “Tu non dovevi farmi questo, Mark! No!”
“Io ho fatto quello che potevo”, scoppiai a piangere; “lui però è raccomandato. Lo sappiamo tutti e due.”
“Allora piantala di far la morale a me”, ribatté puntandomi il dito contro; “Tutto pensavo, tranne che tu potessi cadere così in basso!”
“Basta”, lo interruppi urlando e sbattendo i piedi a terra. Poco mi interessava se Freddie in sgabuzzino potesse sentire tutto. “Quel test di merda, capisci? Andrew! Quel test di merda è andato male!”
“La vita va avanti, Mark”, d’un tratto la sua collera si trasformò in quella gioia incontenibile che non riuscivo a spiegare. “Io sono legato a Freddie, tu a Ray. Facciamocene una ragione e proviamo a ricominciare. Cosa dici?”
“Maledizione, Andy!” Urlai ancora più forte; “Ray ha un esito positivo e io no!”
“Grazie al cielo”, lui si lasciò andare a un sospiro di sollievo e, ignorando le mie resistenze, mi abbracciò ancora più forte. “Io l’ho scoperto ieri”, mi raccontò alla fine; “sono positivo e orgoglioso.”
Stavolta fui io ad abbracciarlo, dimenticando per un attimo l’ombra del suo tradimento. “Hai visto, ce l’hai fatta! Io ho sempre creduto in te.”
Ci lasciammo andare, abbracciati sul divano, come i primi tempi assieme. Avevamo entrambi necessità di una bella dormita e chiudemmo gli occhi uno fra le braccia dell’altro.
Mi ero appena appisolato quando sentii nel dormiveglia dei passi e la porta d’ingresso che si chiudeva, ma le dita di Andrew mi coprirono gli occhi: “dormi, amore”, mi sussurrò. “Hai solo avuto un incubo. Non ti preoccupare, ci sono qui io.”
Amore e follia
La mattina seguente fui il primo ad aprire gli occhi; ben attento a non svegliare Andrew mi alzai, un sorriso radioso a illuminarmi il volto. Gli avrei preparato la colazione come facevamo ai primi tempi e tutto sarebbe ricominciato come sempre.
Il suo tradimento era solo una mia paranoia, appena mi guardai intorno ne fui certo: non c’era traccia di Freddie, nel ripostiglio il cesto dei panni sporchi era vuoto e io ci infilai dentro i vestiti che avevo indossato durante il viaggio.
Ma quando tornai in cucina trovai Andy che, in fretta, sistemava il lavello! C’erano davvero due piatti sporchi, e io ricordavo di non aver cenato con lui!
“Allora Andy”, gli parlai mentre versavo il latte caldo nella mia tazza. Volevo farmi passare ogni sospetto una volta per sempre. “Raccontami del tuo esame! Positivo cosa vuol dire?”
Mi sorrise malizioso e addentò un biscotto, in un silenzio enigmatico che avevo tutta l’intenzione di rompere; “dimmi che ho in casa il nuovo Arthur Conan Doyle! Sono fiero di te, Andrew!”
“Guarda Mark”, rispose con nonchalance; “il mio risultato positivo non c’entra con la scrittura, è qualcosa di molto più…”
Si fermò, come se d’improvviso non gli venissero le parole. “Che scrittore sei”, cercai di sdrammatizzare. “, “Neanche sei capace di spiegarmi cosa ti è accaduto?”
“Qualcosa di molto più intimo”, continuò guardandomi negli occhi. Vedevo in lui una serenità che mi faceva sentire quasi inutile, una luce che nello sguardo non gli avevo mai visto.
“Io e Freddie, da ieri siamo legati per sempre e abbiamo festeggiato. Capisci?”
Non volevo capire, con quel sorriso il mio Andrew non poteva parlare di una malattia così devastante. “Spero di no”, gli risposi. “Dimmi che non è come penso!”
Andy fece il giro del tavolo e si appoggiò con le mani alle mie spalle; un gesto che faceva spesso quando doveva dirmi qualcosa di importante, ma che in quell’attimo mi parve minaccioso.
“Me lo ha trasmesso Freddie. Gifter Freddie.” Mentre parlava, il suo tono sembrava quasi solenne e io trattenni il fiato, consapevole di quella terribile realtà. “E non me ne pento! Ora io e lui siamo uniti col sangue e nessuno può distruggere questo legame, adesso. Neanche tu!”
Ogni cosa iniziò ad avere un senso: i loro sguardi complici al concerto di Wembley, l’affitto di casa sempre pagato, ma soprattutto gli incubi ricorrenti con Freddie che mi prendeva in giro dandomi del cornuto.
“Tu”, urlai dando un calcio alla sua sedia. “Tu, ti sei fatto contagiare di proposito? Mi stai dicendo questo?”
“Non puoi capire”, mi rispose glaciale. “Io e il mio Gifter abbiamo una connessione che…”
“Come cazzo parli”, lo interruppi gridando. “Il bastardo che ti ha infettato adesso diventa cosa, un benefattore?”
“Fra me e lui c’è qualcosa di più grande, un rapporto biologico e spirituale che tu non potrai mai…”
Senza pensarci due volte mi mossi verso di lui e lo afferrai per il collo: “io posso tutto”, ormai era la collera a guidarmi mentre stringevo; “adesso è finita per tutti e due!”
Andy tossì forte e con le mani cercò di liberarsi ma io continuai a stringere, completamente fuori controllo; “fermati”, mi pregò con un filo di voce, i suoi occhi spalancati fissi nei miei. Uno sguardo penetrante, doloroso, in cui vidi il mio riflesso: accusavo Freddie di aver fatto male ad Andrew, e io mi comportavo peggio?
“Sei pazzo”, crollai in ginocchio a terra senza più nemmeno guardarlo. “Hai portato la malattia in casa, mi hai tradito sul nostro letto e adesso cosa pretendi?”
“Mi spiace”, mormorò lui avvicinandosi a me; “Freddie mi ha dato quello che tu non avresti mai potuto…”
“Follia”, sospirai. “Avete una relazione tossica e lo chiami amore? Hai distrutto tutto, Andy! Tutto!”
“Tu e la tua mania del controllo”, si rivolse a me dandomi le spalle. “Le tue insicurezze, i tuoi calcoli, basta! Freddie mi ha insegnato cos’è la fiducia. Quella vera. Non ti amo più, Mark, è finita!”
“Te ne renderai conto quando sarà tardi”, ormai non avevo più nulla da perdere e cedetti al pianto. “Quando sarai in punto di morte non chiamare me!”
“Io sono immortale adesso”, ribatté lui con una calma disarmante. “Il virus è la nostra seconda anima! Se Freddie muore, continuerà a vivere in me. E viceversa.”
“Vaffanculo”, gridai e con le lacrime agli occhi corsi fuori sbattendo la porta. Via da Andrew, via dal suo tradimento, e dalla sua visione malata dell’amore.
“Sono immortale”, quella frase rimbombava ancora nelle mie orecchie mentre scendevo le scale che mi separavano dal passato. Arrivai in strada e una folata di vento freddo mi penetrò nei vestiti costringendomi ad aumentare il passo.
Camminai senza meta per minuti, forse per ore, le voci dei passanti che si fondevano in un unico coro nella mia mente: “non ti amo più, è finita… sono immortale…” le parole di Andy suonarono sinistre finché una canzone proveniente da un negozio aperto, mi fece tornare per un po’ ai momenti felici:
“Sei il mio cuore, sei la mia anima. Ti terrò per sempre, starò insieme a te…”
Modern Talking. Una canzone che aveva accompagnato me e Andy i primi mesi della nostra storia e che ora assumeva un significato diverso. “Forse ha ragione lui”, pensai mentre decine di persone e auto passavano senza nemmeno notarmi. “Forse sono io davvero a non capire.”
Consapevolezza
Da quando io e Andrew ci eravamo lasciati la mia vita era composta di giorni tutti uguali. Ero ormai senza una casa degna di questo nome e mi dovevo accontentare solo di una stanza squallida in un motel che riuscivo a permettermi perché, forse per pietà, mi avevano accettato a lavorare lì.
Le ore passavano tra una stanza da pulire e l’altra, raccogliendo immondizia di ogni tipo e mangiando avanzi; l’odore delle esistenze squallide quanto la mia si mescolava a quello del direttore: era lui a garantirmi lo stipendio fisso, e per avere la mancia a fine giornata dovevo fermarmi qualche ora nel suo ufficio, non certo per parlare di lavoro.
“Vai a letto, femminuccia”, mi allungava una misera mancia e una pacca sul culo poi, buttando nel cestino il preservativo usato, mi intimava di uscire senza neanche un grazie.
Così non mi restava altro che chiudermi nella mia stanza, un misero buco con un materasso sfondato e pareti da cui si sentivano le voci sguaiate di gente che forse, a letto, si divertiva più di me.
Avevo solo i miei pensieri come compagnia, e per togliermi di dosso tutto lo schifo che dovevo sopportare mi immergevo nei bei ricordi.
“Sei la mia anima, seconda anima,” infilandomi sotto le coperte canticchiavo, modificando le parole dei Modern Talking. Era solo una presa in giro che inventavo per rilassarmi, ma più ripetevo quelle parole più davo loro un senso: il richiamo del virus che avevo deciso ormai di assecondare.
Nel tempo la caccia all’HIV divenne una missione, e iniziai a spendere il mio misero stipendio in giro per locali in cerca di avventure.
Persone sconosciute, una diversa dall’altra, che mi usavano come giocattolo senza sapere il mio nome né ascoltare la mia storia e a me andava bene così: di loro non mi interessava il corpo, volevo l’anima, questo era ciò che raccontavo a me stesso per giustificarmi mentre toccavo sempre di più il fondo.
Il risultato però non cambiava: negativo, non reattivo. Pareva che mi stesse disprezzando persino l’HIV!
Nei locali e nell’ambulatorio per la salute sessuale però ebbi la fortuna di stringere anche delle amicizie con ragazzi nella mia stessa condizione: alcuni addirittura conoscevano Freddie e Andrew!
“Sapessi Mark”, mi disse una sera Leo, un ragazzo che mi aveva appena offerto da bere. Stava in evidente alterazione da alcool e forse altro, ma come al solito non me ne importava.
“Chi conosce Freddie è fortunato”, mi raccontò. “Lui non fa nulla per caso, e quando ti sceglie ti cambia la vita!”
“Fuma meno, amico”, gli sorrisi mettendo giù il bicchiere vuoto. “Sarà meglio che me ne vada!”
“Te ne offro un altro”, lui cercò di convincermi ma io lo salutai in fretta e uscii dal locale.
Freddie, ancora quel maledetto nome che mi perseguitava come un fantasma. “Andy non è l’unico”, pensai, senza capire per quale ragione avesse scelto il mio ex e non me.
Addio, Andrew!
“Oh, finalmente!” esclamò il direttore del motel appena mi vide; “ti stavo aspettando, sono ore di arrivare, queste?”
“Chiedo scusa”, entrai nel suo ufficio e chiusi la porta alle mie spalle, aspettandomi la solita routine. Ma stavolta lui non si alzò e mi rivolse uno sguardo cupo, che non gli avevo mai visto.
“Mi dispiace direttore, sono stato con gli amici e il tempo è volato via.”
“Siediti, Mark”, la sua voce mi fece trasalire. “Devo parlarti.”
Indicò la sedia di fronte alla scrivania e io mi lasciai cadere, appesantito dalla stanchezza e l’alcool.
Non mi piaceva l’espressione dei suoi occhi, né il tono della sua voce, era anche strano che nessun preservativo fosse ancora uscito dalla sua borsa.
Si asciugò gli occhi con un fazzoletto di carta e io lo fissai attonito: lacrime? Il maschio alfa del motel che piangeva?
“Mio fratello è morto”, disse trattenendo il pianto; “ed è giusto che tu lo sappia.”
Allora non ero solo un suo giocattolo? Contavo qualcosa per lui, ma non voleva ammetterlo? “Condoglianze”, gli dissi. “Posso fare qualcosa per Lei?” Era strana quella improvvisa confidenza, considerato che fino a poco prima mi trattava come l’ultimo degli ultimi.
“Non è… Insomma non è un fratello biologico”, proseguì col discorso e io restai in silenzio. Dove voleva andare a parare?
“Ecco, Mark, parlo di Andrew Jones. Mio fratello. So che eravate legati.”
“Come, in che senso morto”, lo shock mi impedì di formulare frasi di senso compiuto. “Non ci parlo da mesi.”
“AIDS”, disse il direttore. “Non gli ha dato scampo. Io e lui eravamo della stessa famiglia. Capisci cosa intendo?”
“Il cuore, l’anima”, le parole mi uscirono una dopo l’altra, confuse. “la seconda anima… C’entra Freddie?”
Il direttore annuì lentamente: “Già, ragazzo. Andy Jones discendeva da Gifter Freddie. Come me.”
“Non ci posso credere… Anche Lei, direttore? Cosa sta dicendo!”
“Una connessione fortissima”, mi sorrise con orgoglio. “Gifter Freddie è l’uomo a cui sono più legato in vita mia. Il padre biologico che mi sono scelto.”
Si accomodò sulla sedia di fronte a me e mi guardò, come a volermi studiare; “e tu Mark, cosa pensi di fare ora che sai tutto?”
Respirai a fondo e spalancai gli occhi, come a volermi scrollare di dosso un brutto sogno. Avevo bevuto, sì, ma non così tanto da annebbiarmi la mente.
“Mark, ci sei?” domandò ancora, osservandomi dall’alto al basso. “Dimmi cosa vuoi fare, perché non ho tanto tempo da perdere con quelli come te.”
Sei la mia anima, la mia seconda anima. Ancora la canzone storpiata dei modern talking mi faceva scoppiare la testa.
“Augustus… Gus…”, per la prima volta da quando lavoravo nel motel, non lo chiamai direttore; lui però non si mosse, indifferente alla confidenza che tentavo di offrirgli.
“Signor Taylor”, mi coprii il volto paonazzo con un braccio. Potevo cadere più in basso di così? “Non so come chiederglielo, Andrew non c’è più e io vorrei tanto…”
“Funerale già fatto”, il direttore mi interruppe deciso. “Eravamo tutti presenti noi della famiglia e tu, beh, tu non ne fai parte.”
Consapevole di aver già toccato il fondo mi alzai in piedi e lo fissai, dritto negli occhi: “Voglio che da oggi in poi ti levi il preservativo con me”, gli dissi con una determinazione che mi stupii di avere. “Fammi entrare in famiglia, Gifter Gus!”
Per un attimo restò impassibile poi scoppiò a ridere, sguaiato: “non funziona così amico”, parlò senza guardarmi. “voi negativi non avete alcun potere di scegliere! E la mia prima conversione non sarai certo tu, vuoto a perdere.”
Dannato quel soprannome che mi portavo dietro da quando ero piccolo, chiaramente era noto all’intera città ormai e potevo farci poco.
“Se vuoi il virus vai da lui”, il signor Taylor mi porse un biglietto da visita; “con tutti quelli che mi arrivano in ufficio io potrei avere una mutazione. Meglio se vai alla fonte, credimi!”
Esaminai il biglietto con cura: “Freddie M.”, e un indirizzo con un numero di telefono.
Mille pensieri mi affollarono di nuovo la testa: era Freddie la causa di tutto, l’uomo che aveva ucciso Andrew e io potevo vendicarmi in un modo o nell’altro.
“Lui è un personaggio famoso”, mi rivolsi a Gus rigirandomi fra le dita il biglietto; “posso dirgli che mi mandi tu? Siete in famiglia, no?”
“Neanche per sogno”, il signor Taylor annientò ogni mia speranza. “E non azzardarti ad andare lì come Mark Wilson. Cambia nome, fai quello che ti pare, ma dimentica dell’HIV. Chiaro?”
Mi sarebbe andata bene qualunque condizione pur di non lavorare più in quello squallido motel, così abbandonai l’ufficio di Gus senza un saluto. Avrei trovato Freddie, l’avrei affrontato e questa volta non avrei fallito.
Lascia un commento