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Vuoto a perdere 05: nuovo lavoro

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MONDO REALE: Jim Hutton era il compagno di Freddie Mercury; ufficialmente però, lavorava come giardiniere nella sua villa, Garden Lodge.

Un’altra persona vicina al leader dei Queen fino alla morte, è stata la sua ex fidanzata Mary Austin con la quale Freddie ha mantenuto una solida amicizia.

FANTASIA: Mark Wilson, il vuoto a perdere, cambia la propria identità in William Karson e riesce a farsi assumere come tuttofare a casa di Freddie, accolto dall’assistente Melania. Per il nome della residenza abbiamo usato “Melody Hall”.


Nuova identità

Col biglietto da visita di Freddie ancora tra le dita, mi rassegnai a tornare nella mia squallida stanza: modo o maniera avrei preso i miei pochi oggetti e me ne sarei andato non appena avesse fatto giorno.

Questione di una bella dormita che, però, non arrivò mai: Andrew e Gus, Freddie che aveva dato il virus a entrambi, e io? Il pensiero dei fatti recenti non voleva lasciarmi riposare.

Avevo troppe domande senza risposta: perché stavo chiedendo l’HIV al mio capo? Cosa mi passava per la testa? Con quale faccia avrei potuto ora chiedergli scusa, dirgli che scherzavo? Era palese, mi ero giocato ogni opportunità, forse per sempre.

Mi vestii con la mia solita tuta ormai logora e il biglietto da visita ben nascosto nella tasca; uno scalino dopo l’altro arrivai alla reception nel silenzio della notte, posandomi per qualche minuto sul bancone in legno in attesa di un’ispirazione.

Erano le tre e il telefono appeso al muro accanto all’orologio era una tentazione fortissima, ma guardandomi attorno notai il portiere che dormiva profondamente su una poltroncina; in un istante l’idea di chiamare a casa di Freddie scomparve, cogliere il tizio in flagrante mi avrebbe riabilitato agli occhi del direttore!

Percorsi l’intero corridoio e mi fermai davanti alla porta del signor Taylor, da cui vedevo uscire ancora luce. Era la mia occasione, lo sentivo!

“Calma, Mark, calma”, respirai a fondo mentre allungavo la mano verso la porta e mi decisi a bussare.

“Signor Gus”, chiamai con voce tremante. “Mi perdoni se…”

“Che diavolo vuoi ancora, Wilson?” sbraitò lui dall’interno; buon segno, era da solo. Non mi aveva ancora rimpiazzato.

Entrai senza aspettare un invito e lui alzò lo sguardo dalla scrivania con un’espressione scocciata.

“Sono davvero mortificato, signor Taylor,” cercai di spiegarmi, forzando una calma che non sentivo affatto. “Non avrei dovuto mancarle di rispetto. Ho esagerato. Lei… mi ha sempre dato ogni opportunità, davvero non so cosa mi è preso.”

Per un attimo ebbi l’impressione di averlo un po’ ammorbidito ma capii immediatamente di sbagliarmi, perché scoppiò in una risata beffarda.

“Via, amico, cosa stai dicendo? Non illuderti, Mark. Ti ho dato il lavoro minimo indispensabile perché tu non finissi nella merda. E ora vattene.”

Fingendo di non ascoltare rimasi in piedi immobile accanto a Gus, il suo sguardo accusatorio su di me mentre rovistava in un cassetto della scrivania.

Ne tirò fuori una busta e me la lanciò, come a volersi liberare di entrambi. “Prendi e sparisci,” disse con voce ferma e che non ammetteva repliche.

Con le dita tremanti la aprii sotto lo sguardo del direttore che continuava a mettermi soggezione; libertà o morte, quale sarebbe stato il mio destino? Ma appena il bordo si strappò io trasalii: soldi, tanti, una cifra che con la mia solita paga avrei forse ottenuto da lui in due o tre anni.

La sorpresa divenne però inquietudine quando fra le mani mi trovai una nuova carta d’identità con la mia stessa faccia, ma un nome diverso.

“William Karson? Che significa?” chiesi, il cuore che mi batteva come un tamburo; “avrà mica fatto la fine di…” Pensai ad Andrew, alla sua morte, e bloccai le lacrime sul nascere; mi dava i brividi solo l’idea di attribuirmi l’identità di una persona probabilmente morta.

“Vuol dire che, se hai intenzione di prenderti l’HIV da qualcuno, almeno non mi trascinerai nella merda,” spiegò. “Devo salvaguardare il mio ceppo virale da quelli come te, Vuoto a Perdere!”

“Ma se Lei mi ha detto che Freddie gliel’ha trasmesso…”

Con una mano mi spinse bruscamente verso la porta, facendomi quasi perdere l’equilibrio: “Sempre se qualche spazzatura come te non me l’ha già rovinato! William Karson lascia perdere, cancella il tuo passato perché questa è la tua unica speranza di sistemarti. A proposito, se sei ancora qui e non venduto a qualche protettore, ringrazia Raymond Still.”

Ray, il bullo. Sempre in mezzo. Quel nome mi colpì come un pugno in pieno volto. “Raymond?” dissi di nuovo, incredulo. “Cosa c’entra lui?”

Gus si appoggiò alla sedia e tamburellò con le dita sullo schienale. “Ray ha un cervello, contatti e un futuro. A te manca tutto questo, ma, non so perché, mi sono sentito generoso. Adesso però levati dalle palle, Mark. E ricordati: Freddie non ha tempo da perdere coi buoni a nulla. Se vai lì, fai tutto ciò che ti chiede. O meglio, no. Fallisci e basta. È la tua specialità, giusto?”

Sentii dentro di me la rabbia esplodere in un urlo, che però all’ultimo momento non feci uscire. Gus non credeva in me, esattamente come il resto del mondo! Stavolta però sarebbe stato diverso, mi sarei preso la rivincita a ogni costo.

Organizziamoci!

Rientrai nella mia stanza e fissai il biglietto da visita consegnatomi da Gus. Il nome Freddie M. era stampato in grande, accompagnato da un indirizzo e un numero di telefono.

Tornato sul letto mi passai da una mano all’altra quel biglietto col numero telefonico da cui poteva dipendere il mio futuro; no, non era il caso di scendere un’altra volta in reception e chiamare nel cuore della notte! Dovevo dormire, almeno qualche ora, per risultare un po’ più presentabile.

Le ore sembravano interminabili ma appena il mio misero orologio segnò le 8 del mattino, scesi in reception.

Non c’era Gus e il portiere era seduto dietro il banco a scrivere con una penna su un blocco note, così io raggiunsi furtivo il telefono a disco appeso al muro e, una cifra alla volta, composi il numero.

Le mie dita esitarono sul disco del telefono mentre guardavo con insistenza i numeri scritti sul biglietto, ossessionato dall’idea di sbagliare; una, due rotazioni, tre… poi finalmente lo girai per un’ultima volta e il disco tornò al punto di partenza.

Sentii dall’altra parte il segnale di linea libera e aspettai altri interminabili secondi, finché una voce femminile dal tono rassicurante mi rispose.

“Melody Hall, chi parla?”

Il nome della casa era quello riportato sul biglietto, ma mi sembrò di riconoscere la donna al telefono. In un ambiente così lussuoso una come lei era decisamente fuori luogo!

Mi schiarii la gola per nascondere l’imbarazzo. “Buongiorno, mi chiamo William Karson,” replicai, usando la nuova identità. “Ho saputo che cercate un tuttofare. Posso parlare con qualcuno per un colloquio?”

Un attimo di silenzio, poi la donna rispose: “Sì, stiamo effettivamente cercando una persona volenterosa che si prenda cura della casa a 360 gradi. Giardino, stanze, pulizie… Può venire oggi pomeriggio alle tre. Mi occupo io del personale, sono Melania.”

Maledizione, sì! Era proprio lei e ci eravamo conosciuti in contesto non certo professionale. Consapevole di quanto alta fosse la posta in gioco, feci finta di niente e la salutai. “Grazie, a presto. Ci vediamo alle tre,” mi congedai, cercando di controllare il mio tono di voce.

L’incontro con Melania

Fortunatamente i soldi che Gus mi aveva lasciato erano parecchi e colsi l’occasione di sistemarmi un po’: vestiti e orologio nuovi, capelli tagliati, e comprai anche uno zaino più decente di quello che avevo con me per raccogliere i miei pochi effetti personali.

Sicuro di me presi il primo autobus e appena arrivai alla fermata più vicina, camminai verso Melody Hall; ero puntuale, anzi in anticipo perché l’orologio segnava le 14:45.

A causa del mio passo veloce o forse l’emozione,il cuore mi batteva fortissimo e respiravo affannosamente ma mi sentivo pronto anche a prendere di nuovo gli stracci per pulire il bagno, se me l’avessero chiesto; il mio obiettivo sarebbe stato questione di qualche settimana, alla peggio qualche mese.

Suonai il campanello e Melania aprì subito la porta, i suoi capelli sciolti sulle spalle uguali a come l’avevo conosciuta mesi prima. Anche lei mi aveva riconosciuto, era evidente dal suo sguardo ma cercò di mantenersi distaccata:

“William Karson?” chiese con un sorriso gentile ma professionale.

“Sì,” risposi con fermezza, mascherando ogni emozione.

“Prego, entra,” disse. Mi fece strada attraverso un corridoio elegante, pieno di quadri e oggetti di lusso. “Sono l’assistente di Freddie e sua referente. Sarò io a valutare se sei idoneo a questo lavoro.”

Ci sedemmo a un tavolo in una sala arredata con gusto e iniziò a farmi le solite domande: esperienze lavorative, disponibilità, capacità di adattamento. Io rispondevo a tono, cercando di mantenere più possibile le distanze ma notavo che troppo spesso mi guardava dalla testa ai piedi, facendomi sentire a disagio.

Il gioco di sguardi continuò per mezz’ora abbondante, finché lei prese coraggio: “Sai,” disse, abbassando leggermente gli occhi; “mi pare di averti già visto! O forse, forse mi sbaglio.”

Colpito e affondato! Chissà, in cuor mio speravo che quell’avventura di una notte avrebbe giocato a mio favore ma ero determinato a mantenere la calma. “Non saprei, io faccio pulizie in giro da parecchio tempo, del resto vivere a Londra non costa mica poco!”

Lei non aggiunse altro e mi rivolse un sorriso enigmatico: più preoccupato o malizioso, non sapevo decifrarlo. Mi aveva riconosciuto veramente, o stava solo mettendo alla prova i miei nervi?

“Sei approvato”, mi disse alla fine del colloquio; “ma prima devo avvisarti di una situazione delicata. Vivrai in questa casa, perciò è giusto che tu sappia…”

“Non tirarla per le lunghe”, pensai, e mi limitai a un lieve cenno del capo mentre lei si alzava per andare a chiudere la porta. “Qualunque cosa tu possa sentire o vedere dentro queste mura, non deve uscire. Freddie è famoso, sai, la stampa, gli scandali…”

“Lo so”, la rassicurai, quasi certo di dove volesse andare a parare. “Io sarò zitto come una tomba.”

“Vedi William, Freddie è malato e non vuole che in giro si sappia. Non è una malattia come tutte le altre!”

Ci avevo indovinato, dovevo solo spingerla a confidarmi più dettagli. “Se c’è bisogno di aiutarlo, tenergli compagnia, fargli fare passeggiate in giardino, conta pure su di me!”

“Tu devi occuparti della casa”, mi smontò subito ogni entusiasmo. “Per il resto ci siamo noi del suo staff.” Poi, parlando a voce più bassa e forse impaurita, “l’AIDS non è uno scherzetto, si muore con quella roba!”

Avevo ottenuto la conferma che mi serviva, chiesi scusa e la seguii nell’area della villa riservata allo staff.

Fu abbastanza semplice adattarmi al lavoro, compiti su cui avevo ormai parecchia esperienza: pulivo, sistemavo, obbedivo agli ordini di Freddie che, però, venivano sempre dalla voce di Melania.

Accettai di buon grado quelle mansioni umilianti che fino ad allora avevo svolto per mantenermi gli studi, e per vivere al motel; lì invece era diverso, ero nella villa del mio rivale in amore e i sacrifici non sembrarono più così pesanti.

Ma se Melania era esigente, non era di certo paragonabile a Gus Taylor perché almeno lei, qualcosa, da me si aspettava: il direttore del motel mi aveva dato quel biglietto da visita per umiliarmi, voleva forse che io ricevessi un calcio in culo direttamente da Freddie invece, giorno dopo giorno, vedevo che i colleghi dello staff mi apprezzavano soltanto.

La strada è lunga

Col passare del tempo mi accorsi di quanto Freddie in realtà fosse irraggiungibile. Melody Hall era piena di vita, eppure lui era una presenza misteriosa, quasi divina.

Ogni tanto lo incrociavo nei corridoi o nel giardino ma era sempre affiancato da qualcuno dello staff e non c’era verso di avvicinarlo; mi sentivo piccolo piccolo di fronte al suo carisma; sul palco mostrava tutto di sé, in casa riservatissimo!

Il suo fascino era travolgente, come Andrew lo aveva descritto: “un angelo sceso in terra”, anche se a me pareva più un diavolo tentatore per il quale ero solo uno dei tanti, quello delle pulizie, che doveva obbedire ai suoi ordini sotto il controllo serrato della sua assistente; qualche volta gli rivolgevo un cenno di saluto e lui sorrideva appena, passando oltre senza mai parlarmi.

E Melania sembrò fare di tutto per complicarmi la vita: se eravamo da soli mi faceva l’occhiolino nella speranza di un contatto intimo che non volevo più darle, per evitare guai mi inventavo anche la scusa di una fidanzata all’estero e a cui avevo giurato fedeltà.

Una sera però mi trovai a un passo dall’obiettivo: seduto a tavola accanto a Melania vidi Freddie tagliarsi con un coltello mentre cenavamo tutti insieme, lui ci aveva chiesto di presenziare per farci sentire al pianoforte l’ultimo suo brano.

Sangue e frustrazione

Era una piccola ferita, quasi insignificante, ma bastò qualche goccia di sangue a colorare la tovaglia per accendere in me l’istinto animale.

Osservai la scena, incapace di distogliere lo sguardo. Il sangue di Freddie era così vicino, vivo. Ma prima che potessi anche solo muovere un passo, Melania si alzò fulminea; presi dei guanti dalla sua borsa gli pulì la ferita con calma e precisione applicando un cerotto, poi la serata continuò regolarmente senza che qualcuno facesse caso a quella piccola macchia sulla tovaglia bianca.

Io rimasi lì, immobile, incapace di agire. Quella sera, tornai nella mia stanza mordendomi le labbra dalla frustrazione. Il virus era stato a pochi centimetri da me, e io avevo lasciato campo libero a Melania.

Andrew nei sogni

Quella notte mi addormentai quasi subito, ma i pensieri oscuri non mi diedero tregua. Andrew mi apparve, nitido e reale come non lo vedevo da mesi. Non era il mio Andy però, non l’uomo che avevo amato e perduto: riconobbi i suoi lineamenti del volto, i capelli e le mani, ma gli occhi e il sorriso erano quelli di un predatore.

“Ti sei fatto assumere, hai cambiato nome, eppure non fai niente,” parlò e neanche si sforzò di nascondere il disprezzo nei miei confronti. La sua voce era fredda, dura, come se non fosse più sua. “Stai perdendo tempo, Mark.

“Andrew, amore…” tentai di rispondere, ma le parole mi restarono bloccate in gola.

“Freddie non ti noterà mai,” continuò sorridendo maligno, chino su di me. “Scordati di portartelo a letto, mio caro. Non è così che funziona. Vuoi il virus, vero, quello che scorre nel suo sangue? Scommetto che lo cerchi perché ti illudi di riunirti a me.”

Rise sempre più beffardo e con le sue mani mi accarezzò il volto, aveva le dita gelide come la morte.

“Tu non hai capito niente, bello, il nostro HIV è una responsabilità enorme! Non puoi aspettare che siano gli altri a portartelo. Devi lottare per averlo! Non sei degno di Gifter Freddie, della mia e sua famiglia!”

Cercai di protestare, giustificarmi, ma non riuscivo a parlare. Andrew si era inginocchiato accanto al letto, il suo volto ora a pochi centimetri dal mio e guardando meglio mi resi conto di avere accanto un vampiro.

Dissangualo, Mark,” sibilò, con un tono che mi fece accapponare la pelle. “È l’unica strada percorribile. Non aspetterà te, non ti sceglierà. Devi prendere il virus con la forza. Solo allora sarai completo.”

Mi svegliai di soprassalto nel letto fradicio del mio sudore, il cuore a mille e il respiro affannoso.

Non c’era Andrew con me, avevo solo la guancia posata sulla fredda parete! Allora perché quelle parole non se ne andavano? “Dissangualo, dissangualo, dissangualo.”

In bagno sperai di liberarmi da quel sogno inquietante con una bella doccia calda ma anche lo scroscio dell’acqua non coprì la voce di Andrew che ancora insisteva: “dissangualo, Mark, così sarete una cosa sola.”

“E come faccio”, sospirai. Forse stare al gioco avrebbe allontanato quel fantasma da me?

“Lavora d’astuzia”, ghignò Andy, la sua voce che risuonava dal box doccia; “non mi importa come farai. Tu dissangualo, uccidilo, voglio Gifter Freddie qui con me.”


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