Ci siamo presi il tempo di vederci l’ultimo medical drama spagnolo su Netflix, Respira. La prima stagione, uscita a fine agosto 2024, si compone di 8 episodi e il creatore è lo stesso di “Elite”, altra serie di cui avevamo apprezzato alcune trame.
ATTENZIONE: l’articolo potrebbe contenere qualche spoiler.
Respira!
Siamo appassionati di medical drama dai tempi di “E.R.” serie americana iniziata negli anni 90 e finita nel 2005. Lì, almeno per le prime sei-sette stagioni, ci siamo affezionati alle trame perché trovavamo equilibrate le storie private dei personaggi e quelle dei pazienti: amicizie, amori, conflitti e problemi lavorativi dei protagonisti si abbinavano alla cura di chi arrivava in ospedale con situazioni più o meno importanti da gestire.
In seguito ne sono arrivate altre. Da Dottor House a The Good Doctor, non le abbiamo guardate tutte fino alla fine ma se ci siamo avvicinati al nuovo prodotto “respira” è perché abbiamo avuto fiducia nello sceneggiatore Carlos Montero.
Certo, del suo Elite abbiamo visto solo una stagione e ce ne sono otto, ma avevamo apprezzato alcuni temi affrontati (HIV, islam, omosessualità).
La politica: perché?
Mezzo SPOILER. Il filo conduttore della serie tv è, di fatto, un dilemma: la politica di destra che vuole privatizzare la sanità e i medici scioperano, ma cosa accade quando ad avere bisogno della sanità pubblica è la persona che la riduce allo stremo?
Da qui sono inevitabili gli scontri: “voi di destra, voi di sinistra”, e noi stiamo in mezzo. Guardiamo una serie tv per non sentire queste menate dai giornali o i social e ce le propinano anche qua? Sarebbe ora di finirla! Se si vuole portarci un po’ di impegno sociale ben venga, ma lo si tratti meno superficialmente perché la questione sanità e politica è molto, molto delicata.
Ci lascia perplessi anche la dinamica di un personaggio specifico che si ammazza dopo un errore in sala operatoria, ma non avendo descritto la vita di questo ragazzo nei particolari, poi la colpa viene data alla politica; allora ditecelo!
Senza fiato: un minestrone
Quando si dice che una serie tv o un libro “ti lascia senza fiato” è per il rapido susseguirsi di azioni e colpi di scena. Con “respira”, in effetti, in 8 episodi hanno creato quello che di solito fanno in sei, sette stagioni! Di per sé non sarebbe un male, se le trame fossero ben sviluppate; è importante il carattere e anche il passato di un singolo personaggio, magari non inventandosi da quando gli cambiavano il pannolino però se vuoi che il tuo protagonista o antagonista sia efficace, devi dare a chi usa il tuo prodotto la possibilità di avere empatia nei suoi confronti. E se corri da un’azione all’altra rimanendo in superficie, ci vediamo le storie scorrere da una puntata all’altra e ce ne dimentichiamo presto.
Siamo esigenti noi? Forse, ma abbiamo avuto occasione più volte di vedere cortometraggi che in pochi minuti riuscivano a spiegare un tema difficile in modo esaustivo. Uno però, non mille temi da comprimere in una stagione!
L’effetto che “Respira” ha dato a noi è quello di un insieme di trame senza una narrazione veramente chiara, un “minestrone”. Netflix ha previsto una seconda stagione e noi non sappiamo cosa aspettarci.
Mordi e fuggi
I temi complessi non possono venir trattati col “mordi e fuggi” perché così le persone non ci fanno caso! Per spiegarlo con un esempio dobbiamo anticipare un evento: due personaggi in un dialogo accennano alla PrEP; noi sappiamo benissimo che è una profilassi farmacologica pre-esposizione da HIV ma nei panni di chi vede la serie senza conoscere l’argomento? “Io non ho paura, sono in Prep!” Uno ti guarda e dice “senti bello di cosa stai parlando?”
Un medical drama non dev’essere un corso di medicina o educazione sessuale, ma se dai spazio più ai temi politici che a quelli medici, trasformalo in un political drama e fine della discussione!
Gay, lesbiche e macchiette
SPOILER. In Spagna, dove i diritti LGBTQ+ sono da tempo riconosciuti per legge, ci si aspetterebbe una rappresentazione più accurata e rispettosa delle coppie omosessuali. Questa serie, invece, ricade nei soliti luoghi comuni dimostrando che c’è ancora tanta strada da fare per ottenere una descrizione coerente della società contemporanea, da parte della tv. La vita sociale è complessa e i luoghi comuni danneggiano anche quel poco di libertà che abbiamo.
Non si vede il modello di maschio omosessuale effeminato, i due personaggi gay però si incontrano a una festa dove si usano droghe per sbloccare le inibizioni sessuali (chemsex), uno prende l’HIV da relazioni promiscue, hanno avuto rapporti intimi senza essersi conosciuti davvero.
Questo tipo di abitudine in ambiente gay senza dubbio esiste, così come nel contesto etero dove però si tende a nasconderlo; ma come possiamo noi accogliere a braccia aperte questa come l’unica possibile rappresentazione dei gay?
E con le donne lesbiche è andata anche peggio: famiglia che si sta creando un futuro, un figlio in arrivo, e poi la madre non biologica vuole portare via la bambina all’ex fidanzata che ha appena partorito? Ma stiamo scherzando?
Poi ben quattro personaggi LGBTQ+ legati in qualche modo allo stesso ospedale? Si chiama esagerazione, a casa nostra.
Su questo dobbiamo ammettere che nei primi anni 2000 la serie americana “Queer As Folk” USA era molto più avanti perché oltre a un ottimo sviluppo dei personaggi e le storie, si impegnava a illustrare la complessità della vita in modo più possibile realistico. Coppie monogame e con figli, persone single e promiscue, uomini etero in pubblico e gay in segreto, anche lì si poteva parlare di stereotipo ma l’attimo in cui ti facevi un’idea su un comportamento, c’era chi ti mostrava che poteva succedere anche il contrario e andava bene così.
Nel periodo più recente, malgrado sui diritti LGBTQ+ ci sia maggiore consapevolezza, si è arrivati a considerarli una specie di lascia-passare per la pubblicità: “facciamo le serie tv coi personaggi gay, così loro si sentono rappresentati e noi alimentiamo il luogo comune gradito alla fascia conservatrice. Un colpo al cerchio e uno alla botte.”
Proprio dalle mentalità conservatrici esce sempre il discorso “woke” “politically correct” “gender” e stronzate varie, qui però non c’entra con la politica né la propaganda né i nemici immaginari che tirano fuori ogni volta; è una strategia commerciale ben precisa, finalizzata al risparmio sul marketing. “Se io creo una storia che scandalizza e fa discutere, mi si garantisce pubblicità gratuita nel bene e nel male.”
Con questo noi non vorremmo tornare all’epoca in cui si era invisibili, anche se nell’ultimo periodo in troppi lo auspicano. Vorremmo solo meno superficialità perché inclusione non significa infilarci la storia del gay in ogni dannato film.
Si può parlare di cosiddette “diversità” senza essere stucchevoli? La serie E.R. negli anni 90 e 2000 l’aveva già fatto.
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